rifiuti

Di   12/03/2009

Rifiuti? Il trucco è non produrli
di Giorgio Nebbia

Il recente volume «Ambiente Italia 2009 – Rifiuti made in Italy» della Legambiente, pubblicato dalle Edizioni Ambiente di Milano, esamina uno dei principali problemi italiani, anzi mondiali, quello dei rifiuti. Nel 2007-2008 l’opinione pubblica ha «scoperto» che una grande città come Napoli era soffocata dai sacchetti di pattume, che intorno ai rifiuti circolano proposte di impianti inquinanti e attività criminali, che processioni di camion pieni di rifiuti viaggiano da un capo all’altro d’Italia alla ricerca di un inceneritore o di una cava in cui seppellirli.
Quando si parla di rifiuti il pensiero va subito ai «sacchetti» pieni di immondizia, cioè ai rifiuti solidi urbani, che sono poco meno di 40 milioni di tonnellate all’anno, rispetto ai circa 150 milioni di tonnellate annue di rifiuti totali. I rifiuti solidi urbani sono smaltiti in quattro modi: incenerimento; discariche; riciclo con recupero di materiali e illegalmente. I rifiuti sono i residui, non solo solidi, ma anche liquidi e gassosi, della trasformazione e dell’uso delle tante merci che entrano nelle case, nelle fabbriche, nei negozi, nei cantieri, che circolano sulle strade. Le merci non sono «consumate», come si crede, ma «usate» per un tempo più o meno lungo e, alla fine, buttate via o immobilizzate negli edifici e nel territorio.
Ineliminabli i residui – Siamo di fronte ad una frenetica circolazione di materia che va dai campi e dalle miniere o viene importata, viene trasformata in innumerevoli fabbriche e processi (in ciascuno dei quali si formano rifiuti) e i prodotti trasformati entrano in altri processi o arrivano nei negozi (e anche in questi passaggi si formano rifiuti) e infine arrivano nelle abitazioni o negli uffici e si trasformano in altri rifiuti ancora.
Una parte dei rifiuti urbani finisce negli inceneritori che bruciano la parte combustibile (carta, plastica, residui di alimenti, gomma eccetera) con tante varianti: si va dagli inceneritori promossi a termovalorizzatori quando il calore liberato dalla combustione è venduto o trasformato in elettricità vendibile (con formazione del 30 percento di ceneri da smaltire comunque in discarica), e si arriva a impianti di pirolisi, torce al plasma, dissociazione molecolare o simili che molti inventori propongono agli amministratori pubblici sperando di mettere a tacere la contestazione ecologica nei confronti degli «inceneritori», ma che comunque fanno sempre finire in cenere i rifiuti.
Lo smaltimento illegale, infine, va dal materiale buttato all’angolo di una strada o in un campo dai singoli cittadini, alla fiorente industria criminale di chi raccoglie i rifiuti e li smaltisce in cave abusive o in inceneritori inquinanti, in cambio di un lauto compenso che, per il detentore dei rifiuti, è comunque minore di quello che spenderebbe se smaltisse i suoi rifiuti legalmente. Qualsiasi processo di smaltimento, anche legale, anche «scientifico», ha effetti negativi sull’ambiente sotto forma di fumi o liquami che percolano attraverso le discariche. Certamente la soluzione «meno dannosa» consiste nel separare le materie che possono essere riciclate e ritrasformate in altri materiali commerciali.
Ma anche qui va ricordato che ogni processo di riciclo comporta la formazione di scorie: da un chilo di carta si può ottenere soltanto meno di un chilo di nuova carta o cartone e la differenza è un fango contenente tutto quello che era presente nella carta usata, differente dalla cellulosa. Purtroppo questa è la legge della conservazione della massa: tutto quello che entra in un processo, da qualche parte esce modificato in peggio; il principio che si possa arrivare a «zero rifiuti» è un efficace slogan contraddetto dalla fisica e dalla chimica.
Una proposta non sovversiva – Tutto quello che si può fare è mobilitare i migliori ingegni di un Paese alla ricerca di processi che davvero abbiano il minimo effetto negativo per l’ambiente. A questo fine bisogna sapere con che cosa si ha a che fare. Mancano attendibili informazioni sul metabolismo – del «cibo» fisico della vita materiale quotidiana costituito dalle merci acquistate e usate fino alla formazione dei rifiuti – delle famiglie, delle città, delle stesse industrie, di ciascuno Stato.
Anche nella raccolta differenziata dei rifiuti, che molte volonterose famiglie già praticano, finiscono insieme materiali eterogenei che difficilmente le industrie del riciclo possono trasformare in nuove merci utili perché sono contaminati da sostanze estranee; gli oggetti di plastica sono costituiti da diecine di differenti miscele di differenti polimeri addizionati con differenti colori, stabilizzanti, vernici. Secondo il mio modesto parere la soluzione può essere rappresentata da leggi merceologiche che stabiliscano la qualità e composizione degli oggetti non solo sulla base della massima utilità per gli acquirenti, ma in vista del destino delle merci stesse una volta usate.
Così formulata sembra una proposta sovversiva: in un libero mercato; chi può dire ad un fabbricante come deve essere fatta la sua bottiglia di plastica o di vetro o che cosa «non» deve addizionare alla carta ? Però, a ben pensarci, gli Stati già adesso emanano continuamente leggi merceologiche: come devono essere fatti una automobile o il burro, per danneggiare meno il consumatore. Il passo successivo consiste nell’estendere tali norme al destino delle merci dopo l’uso, se si vuole uscire dalle continue trappole di discariche e inceneritori inquinanti e se si vuole mettere fine alla criminalità che prospera sullo smaltimento illegale dei rifiuti.

10/3/2009


Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.