Emendamenti al Documento 1 approvati

Di   06/12/2013

Manifesto congresso 2013Durante il congresso di circolo del 15 e 16 novembre 2013 sono stati approvati a larga maggioranza i seguenti emendamenti nazionali al Documento 1 “Ricostruire la sinistra, per la rivoluzione democratica e il socialismo del XXI secolo”:

EMENDAMENTO AGGIUNTIVO AL DOCUMENTO N. 1
Alla tesi 4, “L’Europa da cambiare”, dopo la riga 20 “…e di quali sono i suoi meccanismi reali di governo.”, aggiungere:

“L’euro è la più completa e la più perniciosa espressione del carattere neoliberista ed antipopolare dell’Unione europea. Infatti, in quanto moneta eguale per economie notevolmente diseguali, ed in quanto moneta votata ad una granitica stabilità e contraria ad ogni fisiologica svalutazione, esso riproduce ed approfondisce automaticamente gli squilibri commerciali fra i diversi Paesi, e favorisce l’indebitamento degli uni e l’arricchimento degli altri. A prescindere dalle politiche di volta in volta adottate dall’Unione, il meccanismo dell’euro impone quindi, con la forza apparentemente oggettiva e naturale delle leggi economiche, la subordinazione dei Paesi del sud e la centralizzazione dei capitali nel centro-nord del continente; inoltre, non consentendo la svalutazione del denaro, esso impone la continua svalutazione del salario, e la connessa restrizione dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. Per tali vie le divaricazioni territoriali e le divaricazioni di classe si alimentano a vicenda: un mercato del lavoro duale (oltre a minare alla radice la possibilità di una lotta unitaria dei lavoratori europei) deprime in particolare i salari del sud; a sua volta la depressione dei salari aggiunge il calo della domanda interna al deficit di esportazioni, e contribuisce all’arretramento dei Paesi meridionali, destinati, in tempi più o meno rapidi, ad un inevitabile declino.
Per tutti questi motivi ogni trasformazione delle politiche e degli stessi Trattati costitutivi dell’Unione che non elimini il sistema della moneta unica costruendo, nel rapporto tra aree economiche più omogenee, elementi significativi di sovranità monetaria e la possibilità di momentanee svalutazioni, è destinata a mostrarsi presto o tardi inefficace.
E’ certamente vero che l’euro non è la causa unica degli squilibri europei, e che esso è l’espressione dei rapporti sociali e delle relazioni fra Stati sulla cui base l’Unione europea si è fondata. Così come è vero che le difficoltà dell’economa italiana dipendono in gran parte dalle inefficienze del capitalismo privato, dalla precarizzazione del lavoro, dalla latenza di ogni serio intervento pubblico. Ma è altrettanto vero che, come insegna Marx, il denaro non è semplicemente l’espressione di determinati rapporti sociali, ma anche forma decisiva del funzionamento di questi stessi rapporti, cosicché se non si modificano forma e funzione del denaro, nemmeno i rapporti che lo sottendono possono essere realmente modificati. E se è vero che la sovranità monetaria e la svalutazione non risolvono, da sole, le difficoltà dei Paesi del sud e dei lavoratori, è altrettanto vero che, in un mondo in cui le svalutazioni competitive sono praticate ormai da tutte le economie (inclusa quella tedesca che grazie all’euro gode di una sorta di svalutazione strutturale permanente) esse sono condizione necessaria, pur se insufficiente, della ripresa economica e di ogni efficace politica industriale.”
Segue: “Il punto fondamentale di analisi che ne consegue…ecc.”

Boghetta Ugo, Arnaboldi Patrizia, Capelli Giovanna, Commodari Pino, Emprin Erminia, Greco
Dino, Mantovani Ramon, Nicotra Alfio, Patta Nello, Piobbichi Francesco, Sgherri Monica.

EMENDAMENTO SOSTITUTIVO AL DOCUMENTO N. 1
Sostituisce la tesi n. 5: “Uscire a sinistra dall’euro”

Come abbiamo visto, sia dal punto di vista delle esigenze dei lavoratori che da quello delle esigenze generali del Paese, l’uscita dall’euro è inevitabile. E lo è ancor di più se si considera il fatto che, nella situazione attuale, nessuno dei gruppi dominanti del capitalismo europeo, ed in particolare di quello tedesco, mostra di voler abbandonare la linea del deflazionismo e del mercantilismo. L’emergere, altamente improbabile, di una tendenza riformista nel capitalismo tedesco, potrebbe peraltro verificarsi solo di fronte alla chiara percezione della scelta dell’uscita da parte dell’Italia e degli altri Paesi del sud. La semplice minaccia dell’uscita, quando è accompagnata – come oggi avviene – dalla persistente idea che l’euro sia comunque la scelta ottimale, e quando è presentata solo come extrema ratio, non può spaventare nessuno.
Oppure, se presa sul serio, ci esporrebbe solo ai problemi derivanti dall’uscita (speculazione, fuga dei capitali, ecc.) senza consentirci di utilizzarne gli effetti positivi. Soltanto la piena consapevolezza della necessità storica dell’uscita dall’euro, come passaggio necessario alla costruzione di un’autonomia nazionale e quindi di nuovi rapporti internazionali liberamente scelti, può consentirci di definire correttamente i passi intermedi e gli accorgimenti tattici eventualmente necessari al raggiungimento dell’obiettivo. Obiettivo che può essere
efficacemente perseguito solo comprendendone tutte le implicazioni, tutte le conseguenze, tutte le possibili e diverse modalità di realizzazione. Dall’euro si può infatti uscire da destra o da sinistra.
L’uscita da destra consiste essenzialmente nel ricorso sistematico alla svalutazione come surrogato della crescita della domanda interna e dell’innovazione tecnologica. Comporta una significativa diminuzione dei salari, un’ulteriore svalorizzazione delle imprese italiane e quindi la prosecuzione della svendita del nostro patrimonio produttivo. Il tutto nel contesto di un’accentuata subordinazione agli Usa e al libero scambio (di cui la Transtlantic Trade and Investment Partnership è l’approdo finale): una subordinazione maggiore di quella già ampiamente consentita dalla stessa Unione europea. L’uscita a sinistra implica invece, oltre ad un uso oculato della svalutazione, un forte controllo dei movimenti del capitale, l’indicizzazione dei salari ed il controllo di alcuni prezzi, la nazionalizzazione delle banche, la ripresa di un intervento pubblico e di una politica industriale sottoposti al controllo democratico da parte dei lavoratori e della società civile. Implica la dichiarazione di bancarotta delle classi dirigenti che hanno ideato ed attuato le privatizzazioni e la contrazione della sfera pubblica a vantaggio di un’imprenditoria parassitaria ed inefficiente. Ed implica un mutamento di portata storica nella collocazione internazionale del Paese: non più provincia subalterna nello spazio nord atlantico di libero scambio, ma protagonista di una politica di cooperazione coi Pesi dell’Europa del sud, con l’area mediterranea e con i Brics, ossia con tutte quelle realtà politico-economiche che, come noi, hanno bisogno di controllare i movimenti del capitale e di non esserne passivi spettatori.
Ovviamente tutto ciò necessita, per realizzarsi, di un forte consenso di massa, e può essere attuato o dall’ascesa di un governo popolare o dall’affermazione di una corposa opposizione che vada a sommarsi ai forti movimenti di protesta già presenti nel continente. Se è vero che oggi questo consenso non esiste ancora (anche se la disaffezione verso l’Unione europea cresce di giorno in giorno, ed anche se i leader populisti stanno da tempo tastando il terreno dell’ exit) è altrettanto vero che ogni accentuazione della crisi genera rapidi spostamenti nelle opinioni e nei rapporti di forza, soprattutto se alla percezione degli effetti nefasti delle politiche comunitarie si aggiunge l’azione di forze politiche capaci di unire nettezza di scelte strategiche e duttilità di scelte tattiche.
Le proposte politiche devono dunque essere modulate in funzione dell’evoluzione delle congiunture concrete. Non si può quindi proporre oggi l’uscita immediata ed unilaterale, anche se bisogna essere consapevoli del fatto che una soluzione traumatica resta comunque l’evento più probabile. Ma nemmeno è possibile proporre false soluzioni che, come l’idea di una moneta comune, si basano pur sempre sulla finzione che i rapporti fra gli Stati del continente siano rapporti paritari, e sottopongono la (parziale) riconquista della sovranità monetaria alla continua negoziazione con Stati assai più forti del nostro. Si deve piuttosto – per tener conto delle diffuse paure che l’idea della rottura dell’Unione ancora evoca, senza per questo dimenticare la vera posta in gioco – avanzare l’idea di una uscita consensuale dei Paesi del sud dall’euro, che non implichi necessariamente l’uscita dal mercato comune e la rinuncia ad ogni forma di coordinamento delle politiche economiche delle diverse nazioni continentali. E si deve diffondere l’idea non già della rinuncia all’unità politica del continente, ma della ricostruzione di un’effettiva unità in forma confederale, sulla base dell’autonomia e della pari dignità fra tutte le nazioni.
All’interno di questa prospettiva è certamente possibile formulare proposte intermedie e lanciare campagne di fase (come quella contro il Fiscal Compact), e sostanziarle eventualmente con ipotesi e pratiche di disobbedienza ai Trattati e di parziale recupero della sovranità monetaria. Ma ogni scelta tattica può comunque avere successo solo se si è consapevoli del fatto che, data la rigidità degli assetti europei, anche cambiamenti di portata ridotta possono accelerare bruscamente la crisi dell’euro e della stessa Unione. E solo se la politica del partito, e dell’inevitabile coalizione di forze democratiche unite dalla rivendicazione della sovranità popolare (e quindi nazionale), è chiaramente orientata ad estendere la propria influenza oltre gli abituali e ristretti confini della sinistra, insinuandosi nel blocco sociale della destra e rompendolo. Ciò è possibile se si avanzano proposte che, avendo chiaramente identificato l’avversario nei grandi gruppi industriali e finanziari, allentino la stretta che sta soffocando la pletora di “evasori per necessità” e reperiscano le risorse per la ripresa, almeno in un primo momento, attraverso la lotta all’elusione fiscale, la tassazione dei grandi patrimoni, e soprattutto attraverso la nazionalizzazione del credito e la trasformazione della Banca d’Italia (nonché della Cassa Deposti e Prestiti) in un centro propulsivo dell’economia. L’uscita dall’euro si presenta quindi come lo spazio concreto nel quale un rinnovato discorso di sinistra può divenire realmente egemone, e nel quale l’attuazione di obiettivi semi-socialisti, base per ulteriori futuri avanzamenti, può scendere dal cielo dei nostri sogni, e presentarsi come terrena risposta alle necessità più urgenti ed alle esigenze vitali del Paese.

Boghetta Ugo, Capelli Giovanna, Commodari Pino, Emprin Erminia, Greco Dino, Mantovani
Ramon, Nicotra Alfio, Patta Nello, Piobbichi Francesco, Sgherri Monica.


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