il Porto che verrà

Di   26/02/2009

Non so quali siano le “belle letture” del Sindaco Senatore Azzollini e del suo fidato amico a capo del “futuro” nuovo porto di Molfetta…
Evidentemente per dormire sonni tranquilli non dovrebbe leggere il dossier sull’ultimo numero dell’Espresso ( che si può trovare anche online )

Ayaz Erkan, trentaduenne marinaio turco, da più di un mese è in Italia. O meglio di fronte all’Italia, nel porto di Civitavecchia, dove la sua Nesibe è bloccata. È una nave di media stazza, proprietario turco e bandiera cambogiana. Abbandonata dall’armatore, che ha mollato nave ed equipaggio dopo una piccola avaria e non ha pagato neanche il soccorso. Dimenticata dall’industriale che aveva ordinato il carico, tremilacinquecento tonnellate di cemento bianco: nessuno corre a reclamarlo. Affidata alle cure del comandante Ayaz e dei nove uomini dell’equipaggio, prigionieri a bordo. Non sono i soli, di questi tempi. Sparse tra i porti italiani ci sono undici navi abbandonate, carico e ciurma compresi. Vittime del grande gelo dell’economia e dei commerci. Che dai settori più esposti e marginali, come quello della turca Nesibe, si è via via allargato fino a colpire il cuore e il simbolo della globalizzazione: il traffico dei container, le scatole che hanno cambiato il mondo. E che adesso pagano il prezzo della sua crisi: noli crollati, rotte cancellate, giganti dei mari parcheggiati nei porti, scatole vuote nei depositi.

“Abbiamo molto lavoro: ma a quanto pare siamo i soli”, dice Giovanni Olivieri, ispettore dell’Itf, il sindacato internazionale dei lavoratori del mare. Da due mesi gira per i porti italiani come una trottola. Deve assistere e rimpatriare i marittimi di mezzo mondo – quelli che viaggiano con esotiche bandiere e se va bene prendono la paga minima sindacale, 945 dollari al mese tutto incluso – abbandonati da armatori in fallimento. Dopo l’estate era arrivata una circolare allarmata dal quartier generale dell’Itf, a Londra, con le regole di comportamento per la crisi in vista. E con allegato uno studio, commissionato alla Gray Page, che avvertiva: pagheranno per prime le navi che portano merci alla rinfusa, piccole e medie, poi le grandi, per colpa del calo di domanda di materie prime e del ‘credit crunch’ (che rende più difficile finanziare i viaggi); soffriranno anche traghetti e crociere, colpiti dal calo dei consumi del ceto medio occidentale; ma l’epicentro della crisi sarà il container e tutta la sua filiera: i milioni di scatole che girano per il mondo e ci portano l’hi-tech come le cineserie, le magliette e le tazzine, le tv al plasma e i giocattoli per i bambini. Tutti impacchettati e standardizzati nell’unità di misura mondiale della scatola, comoda e veloce. E adesso sempre più spesso vuota.

Ferme in porto “I container fanno un terzo di tutto il commercio globale, ma ne sono il punto di riferimento emblematico”, afferma Nereo Marcucci, amministratore delegato di Contship Italia e presidente di Assologistica, che raduna gli operatori della catena del container in Italia. Per spiegare cosa sta succedendo, ricorre a un’immagine: “Basta un colpo d’occhio dall’alto al porto di Singapore per vedere la crisi: una distesa enorme di navi portacontainer. Ferme”. Per avere un’idea: una portacontainer di ultima generazione è larga come tre campi di calcio messi insieme, per un’altezza fino a trenta metri. Adesso molti di questi campi di calcio sono all’ormeggio: 212 navi, sulle 1.200 che finora hanno solcato i mari.

E dovrebbe evitare anche le notizie del sito della Previdenza marittima

Ma forse leggendo questo articolo su Barilive gli torna il sorriso!!!

PRC-Molfetta


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